Riproponiamo l’opera di Guido Montaldo, “Il Lambrusco, un vino dalle origini antiche, dal gusto moderno“, pubblicazione della Camera di Commercio di Modena e dal Consorzio Marchio Storico dei Lambruschi Modenesi.
Ripercorreremo “venti secoli di storia, suggestioni ed innovazione per il vino che rappresenta la cultura Padana”.
Parte prima
La storia del Lambrusco affonda le radici in un passato remoto, difficile da immaginare, quando l’uomo da nomade a cacciatore trovò vantaggio fermarsi stabilmente in quei luoghi che potevano dargli riparo e risorse, grazie all’allevamento delle piante e degli animali.
Il caso e un grande senso di osservazione verso la natura che lo circondava, gli suggerirono di piantare le piante che gli offrivano frutti commestibili, da ciò nacque l’agricoltura.
La vite, come altre specie vegetali, era una pianta selvatica e cresceva nei boschi e ai limiti delle foreste arrampicandosi sulle piante, costituendo la grande famiglia della vitis vinifera ssp. silvestris (selvatica), che al tempo dei romani era già denominata “lambrusco”, a non confondere con l’ibrido produttore diretto del Nord America.
Possiamo quindi parlare in questo caso di preistoria della viticoltura e paragonare la famiglia dei Lambruschi a “fossili viventi”, che oggi testimoniano l’evoluzione lenta, ma graduale delle specie di viti selvatiche a viti domestiche.
L’interrogativo se i vitigni di Lambrusco, oggi coltivati in diverse regioni d’Italia, siano i diretti discendenti dalle specie di viti selvatiche preistoriche, non è ancora stato risolto.
Si tratta di un problema singolarmente intricato che quasi venti secoli di storia e di tradizione viticola non sono ancora riusciti a chiarire.
Ci piace in ogni caso immaginare che il Lambrusco, il vino frizzante indimenticabile che associa la sua immagine a quella di Modena e Reggio, alla ricca cultura enogastronomica della regione Emilia-Romagna, sia il diretto discendente di quelle lontanissime epoche.
Le origini del vino in Valle Padana
Il numero maggiore di studiosi e di ricercatori sono comunque concordi nell’affermare che l’elaborazione di bevande preparate con acini d’uva sia originaria in Italia nell’ampia zona della Valle Padana.
La produzione vitivinicola ha nella Valle Padana una tradizione di gran lunga antecedente alla colonizzazione romana.
Semi di uva sono stati rinvenuti negli insediamenti palafitticoli del Mantovano, del Bresciano, del Varesotto, del Vicentino e in stazioni terramaricole del Modenese e del Parmense, lungo un arco di tempo che va dal neo-eneolitico, alla fine dell’età del bronzo; in quest casi si tratta sempre di semi di vitis vinifera ssp. silvestris, cioè di vite selvatica.
I primi semi di vitis vinifera ss. sativa, compaiono in alcuni scavi nella stazione di Fontanellato, che provano come la vite fosse presente in questa zona già dall’età del ferro, ma non è dimostrato che questi semi facessero parte di una bevanda fermentata dato l’esiguo numero di essi.
Un altro ritrovamento di agglomerato di semi di vite selvatica in una stazione presso Bressanone, risalente alla seconda età del ferro, è stato interpretato come un residuo di vinificazione. Casi come questo devono attirare la nostra attenzione sulla probabilità che in diversi settori dell’Italia centro settentrionale, già prima della diffusione della cultura della vitis vinifera ssp. sativa e dell’impiego dei suoi frutti nella preparazione del vino, si cominciasse a fare una bevanda fermentata preparata con uve di vite selvatica.
La più antica attestazione letteraria del termine “lambrusca” è fornita dal mantovano Virgilio (Ecloghe V 6 sgg.), il quale in diversi casi ha raccolto la testimonianza di regionalismi caratteristici della Valle Padana.
Virgilio scrivendo: “Aspice, ut antrum silvestris raris sparsit lambrusca racemis”, è il primo a fornire una chiara descrizione di come la vite selvatica si arrampicasse non solo sugli alberi, ma anche sulle rocce di un antro, che essa ricopriva coi suoi radi grappoli.
In un’altra opera, il poemetto, Culex (la zanzara), Virgilio ci parla addirittura di caprette che di primo mattino brucavano avidamente sulle rocce sarmenti e frutti di vite selvatica “pendula proiectis carpuntur et arbuta ramis. Densaque virgultis avide lambrusca petuntur”, dove lambrusca, come sottolinea Sereni, è in questo caso un neutro plurale da lambruscum, cioè il frutto della vite selvatica.
Continua…
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