Continuiamo a riproporre l’opera di Guido Montaldo, “Il Lambrusco, un vino dalle origini antiche, dal gusto moderno“, pubblicazione della Camera di Commercio di Modena e dal Consorzio Marchio Storico dei Lambruschi Modenesi.
L’arbustum gallicum
È ormai dimostrato che le popolazioni celto-liguri che abitarono prima dei romani la Valle Padana, elaborarono le proprie tecniche vitivinicole apprendendole dagli Etruschi.
La caratteristica più importante tra le tecniche vitivinicole trasmesse dal grande popolo tirreno agli abitanti della Valle Padana, fu senz’altro l’arbustum gallicum, cioè la forma di allevamento della vite grazie ad un sostegno vivo, cioè un albero, che nello specifico del caso poteva essere un olmo, un pioppo o meglio un acero.
Questa forma di allevamento si distingueva in modo netto da quella romana, o meglio greca, visto che i romani l’avevano a loro volta imitata da altri, denominata “vinea”.
Il sistema dunque a “vinea”, attualmente invocato da famosi agronomi ed enologi (Giacomo Tachis) come una tra le migliori forme di allevamento, prevede la coltivazione della vite a se stante, ad alberello, tenuto basso, con una alta concentrazione di ceppi sul territorio.
Non vi sono più alcuni dubbi comunque, che la tradizionale forma di allevamento della vite denominata piantata emiliana, derivi dall’influenza dell’arbustum gallicum sulla consuetudine agraria della regione, coincidendo peraltro con la più antica colonizzazione etrusca di queste zone.
Gli “spumanti” dell’antichità
La produzione di vini frizzanti è più antica di quello che si crede, la consuetudine di produrre vini con una sola fermentazione spontanea o controllata degli zuccheri, svolta in anfore di terracotta, chiuse ermeticamente, era comune in epoca romana.
Tra i primi a testimoniarlo c’è il solito Virgilio (70 – 19 a.C.) che scrisse “Spumat plenis vindemia labris” e Properzio (47-15 a.C.) descrisse l’uso di produrre spumante “… Falerno, spumet et aurata mollius in calice“.
Riguardo l’aggettivo aurato si pensa, secondo le teorie dello studioso Rothstein, riferite dal prof. Mario Fregoni, che i vini di quei tempi erano sicuramente “aurati” perché ottenuti con lunghe macerazioni sulle vinacce e ricchi quindi di polifenoliche davano un colore ambrato o dorato.
Lo scrittore Lucano, vissuto dal 39 al 65 d.C., scriveva di un Falerno spumante che si otteneva facendolo rifermentare aggiungendo del mosto di uve appassite di una varietà denominata Meroe, che si importava dell’Etiopia.
I Romani producevano poi il Potropum, un vino dolce e spumante ottenuto impedendo la fermentazione dei mosti con l’immersione dei vasi vinari nelle fredde acque dei pozzi. Plinio notava a proposito del protropo: “così chiamano alcuni il mosto, che per sè medesimo esce dalle uve, prima che si pigino. Lo lasciano bollire nei tini e poi lo lasciano fermentare quaranta giorni al sole durante l’estate”. Proprio a Pompei è stata scoperta una cantina avente un cunicolo attraversato in continuazione da acqua fredda, nella quale venivano posti i dolium con il mosto da spumantizzare lentamente.
Tra le prime uve più indicate a produrre vini a fermentazione naturale furono utilizzate quelle del moscato. Forse originario della Grecia il moscato sembra identificabile, i epoca romana, con le uve Apianae.
Continua…
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