Arrigo Levi, del Lambrusco o dell’italiànskoie sciampànskoie

La mia domestica sovietica, Anna Timofèievna, lo chiamava “italiànskoie sciampànskoie”. Era un bel nome, non c’è che dire, e se qualche esportatore di Lambrusco decidesse mai di lanciarlo sul mercato sovietico non credo che potrebbe escogitare una definizione migliore. Il fatto che questo “champagne italiano” fosse rosso anzichè chiaro, secondo Anna Timofèievna non faceva che renderlo più pregiato; e poi noi eravamo i soli, su 220 milioni di abitanti dell’Unione Sovietica, che pasteggiavamo a “italiànskoie sciampànskoie”, e questo la riempiva di orgoglio e aumentava enormemente il mio prestigio ai suoi occhi.

 

L”‘italiànskoie sciampànskoie”, alias Lambrusco di Sorbara, ci arrivava da Copenhagen, assieme al wiskey scozzese, alle sigarette americane, alla pasta napoletana e a tutto quel ben di Dio che era dato scegliere dal meraviglioso catalogo di Osterman & Petersen, esportatori specializzati in forniture a diplomatici e giornalisti in tutto il mondo; i loro clienti più affezionati penso li avessero a Mosca. Osterman & Petersen procuravano qualche discreta soddisfazione al mio campanilismo gastronomico: il prosciutto crudo in scatola e i salamini alla cacciatora venivano anch’essi da Modena, e così il formaggio grana tipico, e dopo qualche insistenza riuscii a far includere nel famoso catalogo, per gli aficionados, anche l’aceto balsamico. I tortellini, ahimè, sembrava non sopportassero un così lungo viaggio, e mia moglie dovette adattarsi a qualche ora di paziente insegnamento, prima che Anna Timofèievna imparasse l’arte. Dopodichè amava prepararceli, incitandoci a mangiarli (non capiva e non approvava i nostri sforzi per “mantenere la linea”, concetto estraneo alla mentalità russa), col ritornello: “Kùsciaite, slava Boga”, che vuol dire: “Mangiate, nel nome di Dio” (letteralmente “per la gloria del Signore”). A così solenne invocazione sembrava quasi sacrilego resistere.

 

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