Così parla del Lambrusco Ferruccio Veronesi, giornalista e critico cinematografico:
“Io sono il Lambrusco, non avrai altro vino all’infuori di me”. Il nostro decalogo familiare cominciava così e – per generazioni – mai che io sappia nessuno era caduto nel peccato. Il vino, naturalmente, ce lo facevamo in casa. Sul far della sera, arrivava il carro con i panieroni ricolmi d’uva e, staccato il cavallo, gli uomini versavano i grappoli direttamente nelle bigonce, dove le donne (avvoltolate le gonne ben sopra il ginocchio) pigiavano allegramente e non si davano pensiero di rimboccare il barocciaio che le faceva oggetto di rozze galanterie verbali. Per noi bambini era una gran festa: si correva tutt’attorno piluccando qua e là gli acini più grossi, si giocava a rimpiattino tra i cestoni vuoti, ci si rendeva utili con piccoli servigi. E l’operazione durava fino a tarda sera, concludendosi a lume di candela, quando già le prime nebbioline dell’autunno incipiente salivano dai fossi. Più avanti c’erano i travasi, l’imbottigliamento e, quando le bottiglie del bel vino frizzante giungevano in tavola e i turaccioli saltavano nella meno cruenta delle battaglie, era gioia vera e anche ai più piccoli si consentiva l’assaggio del vino che “frigge”. Si favoleggiava, allora, di una famiglia di contadini delle nostre parti che svezzava i lattanti col Lambrusco, ma quest’arditezza dietetica non fu mai seriamente appurata.
Un anno, non ricordo perché, la bella tradizione fu interrotta. Uva troppo cara? Qualità scadente? Amputazione generale delle gambe delle pigiatrici? Non ricordo. So che, quell’anno, il Lambrusco venne a mancare sulla mensa. E cominciò qui una lunga serie di tradimenti. Si era subito dopo la guerra e il solito igienista (che era stato prigioniero in America) convinse i vecchi che, da quelle parti, tutti pasteggiavano a latte e che la gente, per questa preferenza concessa al sugo di vacca, è bella, forte e intelligente; che il vino inebetisce i giovani e rammollisce gli adulti. Sulla tavola, comparve il latte e fu abolito il limone (sennò caglia troppo presto, precisò il dietologo di famiglia). Malinconici pasti, combinazioni impossibili, accoppiamenti bestiali (zampone-latte; pasta e fagioli-latte; tagliatelle-latte): durò appena 15 giorni. Intanto, sempre dall’America, erano giunte le bevande dissetanti che sanno di medicina e vanno bevute ghiacciate. In tutto il mondo, ci fu detto, la gente si è abituata e la beve anche a tavola. Ne fu comprata una cassa, a titolo di rodaggio. Un altro fallimento. Poi provammo con la birra, col succo d’arancia, con l’acqua minerale, con le polverine frizzanti. Il tempo della pigiatura successiva ci vide alle prese con il karkadè e fu la nostra ultima infamia. Quando le prime bottiglie del nuovo Lambrusco ricomparvero sulla tavola, tutti sorseggiavano in silenzio, consapevoli del rito lustrale che cancellava la lunga serie di peccati. I riti furono più frequenti del solito, e abbondanti, sicché quell’anno arrivammo a mezz’estate che già il vino era finito. C’è in giro una nuova bevanda: – disse un tale – dissetante, rinfrescnte, economica. Gli togliemmo il saluto e, da un nostro vicino, ci facemmo prestare un centinaio di bottiglie di Lambrusco”.