Vamba (Luigi Bertelli) ha creato uno dei personaggi più celebri nella letteratura italiana di inizio Novecento: Gian Burrasca. Nel 1888, durante una cena, gli amici gli impongono la composizione di un poemetto dedicato al Lambrusco, colti dall’entusiasmo per il suo abbinamento con lo zampone.
Come scrive Bertelli stesso nella prefazione, tutto nasce dalla proposta di un convitato modenese, che “rivolto ai compagni disse: Volete voi che durante il geniale banchetto, e per molte ore dopo, arrida ininterrotto il sole della più schietta e sana allegria? ebbene, scegliete il Lambrusco di Sorbara; quell’amabile liquore, cioè, che in mirabile accordo accoglie in sé il dolciore del miele, l’acerbetto del melegrano e il gentile e lieve amarognolo del pesco, fuso il tutto in un lontano gradevole sapor di viola. Uno scroscio di applausi accolse la pottesca simpatica proposta e fu allora che l’allegra comitiva entusiasmata dalla saporosa perorazione fatta dal proponente, volendo dare a questi un segno del vivo suo aggradimento, decise lì per lì di tessere in rima l’elogio del delizioso liquore […]. Tutti allora si rivolsero a me, che, per aver commesso altri reati del genere, passavo pel poeta della brigata…”
E Vamba compose la giocosa ode, che ha echi militareschi (anche nella copertina disegnata da Augusto Majani detto Nasica), forse farseschi: l’autore invece che correre alle armi come altri volenterosi, offre la sua composizione in beneficienza, dichiarandosi incapace di altro apporto.
Comunque sia, ecco il poemetto al Lambrusco!
Il Lambrusco di Sorbara
Del sorbarese vin le doti eccelse,
il singolar sapore e il luogo ch’ei
venendo in luce per sua patria scelse,
è quanto, o amici, qui cantar vorrei;
ma chi il ritmo darammi e le parole
e tutto il resto che a cantar ci vuole?
O nettare divin che in terso vetro
fervi a me innanzi, orsù l’estro m’avviva,
chè, se del raggio tuo m’accendi il metro,
qualche buon suon darà pur la mia piva;
ond’io fidando in te, pien d’ardimento,
chiudo l’esordio ed entro in argomento.
Piace il vin bianco a Tizio, a Caio il nero,
chi dolce l’ama e chi duretto un po’…
Insomma, a farla breve e a dire il vero,
piace a taluni un vino, e ad altri no;
ma non trovate alcun, grande o piccino,
a cui non piaccia di Sorbara il vino.
Piace ai bambini ai giovani ed ai vecchi,
ai poeti, agli stolti, ai letterati;
ai grassi piace e piace ancora ai secchi,
agli ebrei, ai cristiani, ai turchi, ai frati,
alle dame, alle serve, ai prenci, ai re,
piace a voi tutti, come piace a me.
E di piacere a tutti ei non può a meno,
chè un misto egli è d’aspretto e di dolciore;
chè niun aroma o essenza ha l’Asia in seno
che vincer possa un sì gentil sapore :
sapore sovruman, sapor divino
che in lui, soltanto, infuse il dio del vino.
Ma prima di cantar le sue virtù
e de’ suoi pregi la natura e il come,
vo’ dirvi come nacque e come fu
che gli affibbiaron di Lambrusco il nome;
indi, se mi vien fatto, vo’ descrivere
il luogo ove tal vite imprese a vivere.
In quanto alla sua origine ho già letto
(o se non letto, almen, certo sognato)
che quando giù dal cielo in un legnetto
sceser Venere, Bacco e il dio soldato
a parteggiare a prò dei Geminiani
per la Secchia rapita ai Petroniani;
fosse di vento un soffio un po’ sgarbato
ovver l’inesperienza del cocchiere,
invece di discender difilato
su Castelfranco (ch’era il lor volere),
disceser verso Nord di poche miglia
tra Bomporto, Solara e la Bastiglia.
Bacco, che vide presso un’osteria,
poco si dolse al disgraziato caso;
ma Marte montò tosto in frenesia,
chè per nulla gli sal la mosca al naso…;
cocchio e destrier d’un calcio scaraventa
indi col brando sul cocchier s’avventa.
Ma l’alma dea d’Amor, con uno sguardo
di quei che dolce al cuor danno la botta,
l’ira calmò d’un tratto al dio gagliardo
che perdonò al cocchier la falsa rotta.
Tornata alfin tra i numi l’allegria,
entraron tutti e tre nell’osteria.
L’olimpico drappel Bacco presiede,
e vin comanda generoso e schietto,
Con la berretta in man l’oste a lui chiede
se dolce l’ami ovver ch’abbia il bruschetto…
« Io l’amo brusco – disse Bacco allora –
« ma non vorrei spiacesse alla Signora… »
« Per me – s’affrettò a dir la dea d’Amore –
lo gusto come vien chè ho qui un’essenza
che a mio piacer ne tempera il sapore ».
E, in così dir, dell’oste alla presenza,
trasse fuor d’aureo astuccio un’ampolletta
da cui partivan lampi di saetta.
E, appena l’oste il vino ebbe portato,
ella n’empie il bicchier e una sol goccia
vi versa ancor del nettar suo fatato;
e, mentre al posto ella ripon la boccia,
il vino entro il bicchier gorgoglia e fuma
e gli orli infiora di frizzante spuma.
Levossi allor d’intorno immantinente
fresco un odor di timi e di viole,
che in un giardin mutò quel fosco ambiente
e l’oste fé’ restar senza parole,
che tanto forte e acuto è quel profumo,
ch’entra per gola ed al cervello è fumo…
Bevuto ch’ebber, venne alfin la notte,
e stanchi tutti e tre del lungo volo,
di sonno avendo le palpebre cotte,
chiesero all’oste un letto e un lume solo;
allora il locandier tutto comprese
benché non fosse guercio e bolognese.
Se da la riunion di quei tre numi
ritorse il guardo del Tasson la musa,
abbassa pur la mia gli offesi lumi
e rossa in volto di narrar ricusa
di quella notte i fasti e la baldoria;
dunque…. silenzio, e seguitiam la storia.
Non anco al finestron dell’oriente,
s’era affacciato il sol col suo gran lume,
allor che colto da un bisogno urgente
dovè Bacco lasciar le allegre piume :
e ad evitar che alcun l’avesse scorto
uscì all’aperto a passo lieve e accorto.
Ma l’oste che, pel vago e misterioso
contegno di quei tre strani avventori,
non potè un’ora prender di riposo,
inteso che un di loro era ito fuori,
esce egli pure e chino in sul sentiero
segue con l’occhio intento il forestiero.
Lo vede entrar nell’orto, ove s’appiatta
dietro un cespuglio, e giù chinarsi in fretta;
come una molla, allor, l’oste su scatta,
e guarda, e vede cosa punto netta…
Onde gli effetti a prevenir del caso
col fazzoletto fa difesa al naso.
Ma qual non fu dell’oste lo stupore
quando, contro ogni attesa (oh meraviglia!)
sente uscire dall’orto un grato odore
di timi, di viole e di vaniglia,
che ratto si diffuse ovunque intorno
si che di Flora vi parea il soggiorno.
E non potéro i sensi sopportare
di quell’arcano odor l’alta potenza:
che quel che Bacco lì dovè lasciare
non era altro che ambrosia in rimanenza;
che un’ uva ell’è di gusto sovrumano
che sol coltiva in cielo il dio Tebano.
Ma lasciam l’oste alquanto e seguiam Bacco
che, rincasato, ritrovò il compagno
che essendo al par di lui slombato e fiacco
iva qual’uom che guasto abbia un calcagno;
ma Venere che il quia sapea del guasto
mandò in cucina ad ordinare il pasto.
Entro capace pentola a bollire
pose l’oste un cappon grasso e di nerbo
e al Grosso pollastron pensò d’unire
di Modena un Zampon che avea in riserbo:
l’almo zampone il cui sapor gentile
vanta la fama ognor da Battro a Tile.
Apparecchiato il desco, in men ch’il dico,
di Bacco e Marte all’affamato morso
sparisce del cappon sin l’ombelico
ed in frantumi van l’ossa del torso.
Non assaggiò la dea che un pò di collo
chè d’altro aveva il ventre suo satollo.
Ma allorché poi, molle fumante e tumido,
il succoso Zampon sul desco apparse
e dall’aperto sen l’olezzo fumido
attorno attorno ai genial desco sparse,
tanto sentì la dea tocca la gola
che quasi mezzo sel mangiò da sola.
Ma sentendosi poi stringer nei lombi
(per aver troppo accondisceso al gusto),
lasciati nell’albergo i due colombi,
uscì all’aperto per slacciarsi il busto;
ma avendo d’acri fumi il capo avvinto
aperse invece de’ suoi vezzi il cinto.
Ai misteri d’amor tolto ogni velo,
mormoran l’aure lascivetti accenti;
e ad onorar la dea del terzo cielo
accorron curvi sovra l’ali i venti;
zeffiro sol, d’amor nell’arti cólto,
levò la fronte e la baciò nel volto.
E tanto amore e tanto ardor raccolse
su quel viso che il ciel fa lieto ognora,
che quando l’ali dalla dea ritolse
per ridonarsi in grembo alla sua Flora,
arser d’amore al suo passaggio i rivi
e i sassi pur sebben di vita privi.
Tocche dal dolce spir che tutto avviva
risvegliansi le ninfe in mezzo all’onde,
e risalendo del Panar la riva
chiaman dei campi le sorelle bionde:
e tutte in coro alla gran dea davanti
accorrono intrecciando i suoni ai canti.
Un somarello uscito allor dal chiuso
la scena osserva : e, come amor lo punge,
fiutato il suolo indi allungato il muso,
un canto innalza che a le stelle giunge,
e mentre ei lancia al cielo i suoi stornelli
fremon d’amor i rivi e gli arbuscelli.
Attonita la dea si guarda attorno
per rendersi ragion di tal ventura;
ma guarda e guarda non capisce un corno,
sinché, abbassando gli occhi a la cintura,
vede il bel cinto aperto…. il chiude… e via
ritorna difilato all’osteria.
Giunta trovò gli amici in un soffitto
che in una lettighetta corta e stretta
dormivano d’un sonno così fitto
che non gli avria svegliati una saetta;
ond’Ella, che era stanca anzichenò,
chiese un lettuccio e vi si coricò.
Ridesti alfine e rinforzato il fianco
lasciarono gli dei l’ospital tetto,
indi ripreso il vol per Castelfranco
(ch’era del l’or viaggio il primo obbietto)
giunservi a notte e là rifatto il gioco
ribadiron le corna al dio del fuoco.
Ma ritorniamo all’oste che, colpito
da quell’arcano odor, le membra immote
lasciammo steso a terra e tramortito,
che dal letargo alfin tutto si scuote
e nessun mal si sente, anzi gli molce
i sensi un’onda voluttuosa e dolce.
Balzato che fu in piè, pian pian s’accosta
al luogo ove quel’uom cotanto strano
quell’odorosa essenza avea deposta,
in modo a dire il ver non troppo umano;
ma quando fu sul posto… guarda e pesca,
non vide che dei semi d’uva fresca.
Lieto l’oste però di tal scoperta,
pensò trarne profitto e in sul momento
piantò, d’agricoltor con mano esperta
(che era pur uom di campi e di talento),
quei pochi semi nello stesso posto
ove li aveva lasciati il dio del mosto.
Era quella stagion che ai primi ardori
del Sole ch’entra nel torel celeste
par fremano d’amor le zolle e i fiori
e la natura a verde si riveste;
vo’ dir che essendo il tempo all’opre adatto
nacquer quei semi si può dire a un tratto.
E pose poi tal cura l’oste esperto
le piante a propagar per ogni dritto,
che l’orticel non solo ebbe coperto;
ma un poderetto ancor che aveva in fitto :
per cui dopo poc’anni (oh meraviglia!)
smerciava il vino in botti ed in bottiglia.
Tanto poi fu quel buon liquor piaciuto,
che di gustarlo a ognun move la brama,
domandan tutti all’oste ove l’ha avuto
e vuol ciascun saper come si chiama,
ma quegli lieto rispondeva: « Mo…
vel direi se il sapessi, ma nol so…
Ricordo sol che la gentil semenza
da cui trarre potei sì buon liquore
l’ebbi da un tale a cui, con riverenza,
chiesi che vin volea, di qual sapore:
e quei con bel parlar franco ed etrusco
rispose : io lo vo’ schietto e l’amo brusco ».
D’allora in poi all’oste ognun chiedea
dell’amobrusco, indi il parlar volgare
quella voce pian piano corrompea;
fece di amo am, e in lungo andare
attaccò all’a quell’elle apostrofato:
quindi lambrusco fu da ognun chiamato.
Parrà per certo a molti un po’ stentata
e strana questa mia definizione;
ma quanti non vi sono anche in giornata
uomini seri e di riputazione
che sputan fuor certe etimologie
che buggere poi son pari alle mie?
Ma su di ciò fo’ punto : chè esaurito
ho quanto m’ero assunto a dimostrare;
ora a descriver passo il luogo e il sito
ov’ebbe un tal liquor sì a prosperare;
ma per non v’annoiar lascio i dettagli
e ve ne dico in breve in due frastagli.
Siede Sorbara in una gran pianura
da la città del Potta a tramontana,
e sebben l’aria là sia alquanto impura
vi vive ognor la gente a lungo e sana
chè s’uno ha d’uopo mai di medicina
non va dal farmacista, ma in cantina.
Fra orti, case, e qualche catapecchia
leva la fronte l’ampia Cattedrale
ma il limo or del Panaro or de la Secchia
le ha sepolto le gambe e un po’ ancor l’ale,
sì che t’appar qual colossal molosso
sdriato a terra a rosicchiare un osso.
Dice la tradizion che lì dappresso
al luogo ove ora sorge il campanile
(che quale incoronato alto cipresso
la Ghirlandina imita nello stile)
sorgeva un dì sì gigantesco sorbo
che quasi quasi l’avria visto un orbo.
I frutti poi, cioè le sorbe sue
eran sì grosse e di sapor sì grato
ch’una soltanto ne valea ben due
e al gusto s’addicean d’ogni palato,
onde tal pianta sì gradita e cara
diede il nome alla terra di Sorbara.
Ma riposiamo un po’ che a parlar schietto
al par di voi comincio ad esser stanco,
a voi le orecchie dolgono, a me il petto,
e son mezzo sfinito, e quasi manco,
e mentre riposiam tutti un pochino
beviamo, o amici, un altro po’ di vino.
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Ora che vi ho svelato o bene o male
del lambrusco l’origine ed il sito
ove quel buon liquore ebbe il natale,
dall’indulgenza vostra fatto ardito,
passerò con un tono un po’ più lirico,
a far di sì gran vino il panegirico.
Ma qual, fra tante sue virtù la prima
farommi a celebrar co’ versi miei?
qual porrò innanzi, de’ suoi pregi, in rima
che tanti ei n’ha e tutti sommi e bei?
Ah! che il mio poco ingegno si dispera
nel cercare il maggior fra tanta schiera.
Pur d’uopo è incominciar, se un vuol finire,
e per incominciar dirò che questo
purissimo liquore, oltre a gradire
il palato di ognuno, è tanto onesto
tanto gentil ch’anco sen bevi assai
t’allieta sì, ma non ti abbatte mai.
T’allieta solo e dolcemente l’alma
qual nettare divin ti riconforta
e gli affanni del cor sopisce e calma,
onde in quel dolce umor l’anima assorta
sogna l’età dell’oro, e giù dai pioppi
vede il miel gocciolare e gli sciroppi.
Del rubino ha il color, l’odor di viola,
spuma come la birra e lo sciampagna
e appena un sol bicchier t’è entrato in gola
ogni acre umor dai visceri scompagna;
umori poi che fuor ruggendo fuggono
disciolti in gas, ovver entro si struggono.
E, s’anco ne lo stomaco tu avessi
pasti da struzzo od altri cibi sodi,
fa che l’indigestion subito cessi
che digerir faria e sassi e chiodi,
e il suo vapor che il nettar equilibra
mette fiamma e vigor per ogni fibra.
Guarisce l’emicrania e il raffreddore
il mal dei nervi e la malinconia,
scaccia del morbo asiatico il timore
che è la causa maggior de la moria,
sopra il convulso poi ha tal potenza
che cessa al sol odor la tremolenza.
Fa all’istante cessar la tosse e il vomito
guarisce il mal di fegato e di milza,
e se un tantin di più sollevi il gomito
ti guarisce di mali sì gran filza
che tanti non guarinne il buon Galeno,
Ippocrate, Esculapio e altri da meno.
Onde si vede, senza tante prediche,
senza un ragionamento metafisico,
che egli ripone in sé virtudi mediche
e agisce immantinente sopra il fisico
e se Galeno ora tornasse a vivere
non farebb’altro che quel vin prescrivere.
Ma, oltre tali doti che influiscono
sul corpo sol per dargli alcun vigore,
altre egli n’ha che intimamente agiscono
sul cuore umano e il rendono migliore;
non starò qui a citarle ad una ad una
che troppe sono e sol ne scelgo alcuna.
Purifica la vista… Ora siccome
di rado vede l’uomo i falli sui
perché dietro li tiene e sol le some
sempre ha dinanzi dei difetti altrui,
così, più acuta a lui fatta la vista,
vedrebbe ancor dei vizi suoi la lista.
Intenerisce il cuore… Oh! se a boccali
n’ingoiasser strozzini e mozzorecchi
del prossimo piccin piovre fatali,
inteneriti alfin, non più gli orecchi
chiuderebbero ai pianti e agli alti strilli
che lor mandan le vedove e i pupilli.
Chiarifica le idee… Oh! se alla Camera
ne tracannasser certi Deputati
(tenendone provvista in anticamera)
d’ogni ragion tosto chiarendo i lati,
volar per l’aula niun vedria più mai
fra il diavolio… soltanto i calamai.
Oh! se bevesser tutti un tal liquore
ritornerebbe a noi l’età dell’oro,
che ognun faria di miel l’anima, e il core
zucchero diverrebbe e fra di loro
s’amerebber davver gli uomini tutti
e sparirebber dalla terra i lutti.
Ma è tempo di suonare a la raccolta
chè se dovessi tutte sue virtù
descrivervi e lodare una per volta
sarebbe cosa da non finir più;
onde giù qua vi butto in un sol fascio
benedizioni e lodi e poi vi lascio.
Oh! benedetto sii in omnia secula
gentil liquor che vinci ogni eccellenza,
del limo tuo val più l’ultima fecula
che d’ogni altro liquor la pura essenza,
onde su gli altri brilli come in cielo
brilla sugli astri ognor la dea di Delo.
Di fronte al raggio tuo vivido e schietto
scemano il lor fulgor l’Asti e il Nebiolo
ed ombrano i lor lampi al tuo cospetto
il barbaresco, il Vermut, il barolo,
la Bonarda, il barbera, il vin di Chieri,
i Moscati e i Dolcetti aurati o neri.
Tu brilli pur su i rai del buon Nerano.
Viarigi, Montemagno, Alba e Casale,
splendi sul Grignolino e il Rossignano,
su i vini di Camagna e di Vignale;
e ad uguagliar tuoi vanti invan si prova
il grato vin di Tonco e quel di Crova.
Tu getti lampi ancor su lo splendore
dei grati vin d’Ivrea e Pinerolo,
d’Acqui, di Susa e di San Salvatore,
di Mondovì, Fubine e Rivarolo,
e su quanti può averne e più perfetti
l’alma terra del Balbo e del Baretti.
Tu vinci lo splendor del gran Razzese
che la ligure allieta alma riviera
ed il cui dolce ardor le menti accese
del Doria, del Colombo e del Chiabrera,
e vinci il pallio pur se ti tenzoni
coi vin d’altre provincie e altre regioni.
Di Lombardia, dirò che vinci i rai
dei dolci vin di Broni e di Canneto,
e domi i lampi luminosi e gai
del Coneglian che il Veneto fa lieto;
dei toschi colli poi non cedi ai vanti
del vin di Greve, Monpulciano e Chianti.
Brili sui bianchi vin del bolognese
pieni di luce vigoria e sapore;
splendi su la Canina e il Sangiovese
che spandono in Romagna il lor fulgore,
e fulgi pur qual limpido topazio
sui vin d’Orvieto e quelli pur del Lazio.
Tu superi in dolcezza i vin di Bari;
di Sicilia, il marsala ed il Vittoria,
vini stupendi, spiritosi e rari,
ma che con lor non si può far baldoria:
chè avendo il fuoco in sen del Mongibello,
se scherzi un po’, ti bruciano il cervello.
Tu avanzi in eccellenza il buon Madera,
il vin d’Oporto e il Malaga di Spagna,
su quei di Francia ancor porti bandiera
sia pur Bordò o Gamè, Pinò o Sciampagna;
persin se a te s’accosta abbassa i rai
il vin di Cipro e l’unghero Tokai.
Porti vittoria pur su i vin Nizzardi,
Corsi, Trentin, Maltesi ed Istriani,
che son dei nostri al par schietti e gagliardi
e nomi hanno e sapor dei vin nostrani.
Superi alfine i rai d’ogni vin Greco,
Turco, Serbo, Rumen, Bulgaro e Czeco.
Oh! liquor glorioso almo e giocondo
che hai d’Esculapio i merti e il buon umore
risvegli in ogni core e in fondo in fondo
cacci ogni affanno e plachi ogni dolore :
o balsamo divin, dimmi, che sei
se il nettare non se’ tu degli dei?
Glorificata sia quell’alma terra
che ti fu culla e con materno amore
ti nutre con gli umor che in se rinserra
tutti impregnati di divin sapore.
O terra prediletta o terra aprica
il ciel sempre ti guardi e benedica :
onde sopra il tesor de’ tuoi vigneti
grandin non scenda mai devastatrice,
né faccia ulterior gel ne’ giorni lieti
di pampini novei vendetta ultrice,
né ruggin mai,, né muffa o altro malore
colgan nei tralci ; frutti adulti o in fiore.
E tu, piccolo borgo mio, che oscuri
de le città il fulgor col tuo liquore,
tu passerai glorioso ai dì futuri
e crescerà di te tanto il rumore
che in ogni lito, io d’affermarlo ardisco,
s’udrà nomar Sorbara! E qui….. finisco.