Storia del Lambrusco – 13° puntata

12° puntata

 

Il miglioramento enologico compiuto dalle cantine vinicole fece crescere l’apprezzamento per i vini modenesi in Svizzera, Germania e Francia in parte alimentato dagli emigranti italiani.

 

Mentre nelle campagne modenesi e più in generale in tutte quelle dell’Emilia, ferveva l’entusiasmo cooperativo, dalle Americhe giunse per i vigneti italiani e d’Europa, il terzo flagello dopo l’oidio e la peronospera: la filossera. Questa volta non si trattava né di un fungo né di una muffa, ma di un terribile insetto che si riproduceva in tre modi differenti: per via terrestre, radicale e aerea, essendo dotato di ali e che quindi era difficile riconoscerlo e combatterlo.

 

La distruzione dei vigneti fu totale: in circa vent’anni l’infezione distrusse buona parte dei vigneti italiani ed europei e fu necessario trapiantare i vitigni originali su portinnesti di alcuni tipi di viti americane, le uniche che in quel tempo che resistevano alla filossera.

 

La fillossera in una vignetta del settimanale britannico Punch, 6 settembre 1890

La fillossera in una vignetta del settimanale britannico Punch, 6 settembre 1890

 

Nel Modenese la filossera arrivò tardi, solo nel 1919, se pensiamo che la sua scoperta risale al 1872 e fu fatta a Valmadrera, un piccolo paese accanto a Lecco.

 

I risultati però furono gli stessi che in tutte le regioni viticole italiane ed estere: fu perso circa il 75% della produzione e venne debellata solo sul finire degli anni ’20.

 

Nel 1934 il Lambrusco di Sorbara era considerato dal dott. P.L. Cavazzuti “Note enologiche sul Lambrusco di Sorbara”: “il migliore, il più importante e rinomato spumante rosso italiano”.

 

Grazie alle sue “Note enologiche” apprendiamo anche che ancora nel 1934 “il Lambrusco viene coltivato consociato ad altre uve, negli interfilari maritato all’olmo e tenuto a festone col sistema della tirella vecchia o tirella speronata, con potatura biennale che bene si presta per il Lambrusco”.

 

Sono preziose le annotazioni del Cavazzuti per quanto riguarda la vinificazione, perché nonostante si siano superati gli anni ’30, le tecniche si avvicinano più a quelle ottocentesche che alle nostre moderne tecnologie. Questo è un fatto però comune alla maggior parte dell’enologia italiana di questo periodo, che cominciò ad evolversi in modo radicale e rapido solo molto dopo alla seconda guerra mondiale.

 

“Le tinaie sono molto semplici – scriveva Cavazzuti – poste poco sotto il livello del suolo, la maggior parte pavimentate, altre no. Giunta l’uva alla tinaia, viene immediatamente pigiata con la pigiatrice. Un tempo però la pigiatura veniva eseguita coi piedi nelle stesse navazze che servivano pel trasporto. Questo vecchio sistema, per quanto da condannarsi – confessa Cavazzuti – nei riguardi della pulizia e dell’igiene, riusciva tuttavia più perfetto di quello a macchina perché permette di far uscire dall’acino tutte le sue sostanze compresa la parte colorante. Versato il mosto nel tino alcuni usano nei giorni successivi fare qualche follatura, altri dopo che si sono messe in fermentazione le graspe le lasciano tranquille per avere un vino più amabile. Infine dopo 2-3-4 giorni secondo la stagione e la temperatura della tinaia si cava il mosto-vino che però non si lascia fermentare completamente perché prenderebbe un po’ troppo l’amaro: perde così di alcool, ma è abboccato”.

 

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