All’interno del nostro viaggio attraverso le aziende vinicole, che contribuiscono a diffondere il nome del Lambrusco in tutto il mondo, oggi vi raccontiamo la storia della Cantina Garuti: situata nel cuore della campagna sorbarese, in una terra fertile dove i fiumi Panaro e Secchia si avvicinano fin quasi a toccarsi, dando origine ad un vino dai profumi ineguagliabili. In cantina abbiamo avuto l’occasione di incontrare Mauro Bompani, il responsabile della produzione, e suo figlio Alessio, che da quasi otto anni si occupa delle relazioni commerciali con l’estero per conto dell’azienda.
Mauro, ci racconti la storia della Cantina?
La Cantina Garuti è nata attorno agli anni ’20 e si avvicina a compiere il suo primo centenario che ha visto attraversare quasi quattro generazioni.
È stata fondata da nonno Dante e poi consolidata dall’operato dei figli Elio e Romeo, quindi dai loro successori con passione e dedizione.
Io sono responsabile della produzione da venticinque anni. Il tutto è iniziato dalla grande visione dei fondatori: quella di mezzadri qualsiasi, partiti senza possedere neanche un podere, che sono arrivati a costruirsi il loro piccolo grande impero, solo grazie alla loro forza di volontà e a tanto sudore.
Se siamo arrivati fino a qui è anche perché nel tempo abbiamo saputo fondere tradizione e innovazione: a partire dagli anni novanta abbiamo attuato una trasformazione della vinificazione, meccanizzato la coltivazione dei vigneti, introdotto delle nuove qualità.
Abbiamo dato vita ad una riqualificazione aziendale che ci ha permesso di migliorare il risparmio economico, senza tuttavia trascurare la qualità della produzione. La meccanizzazione della lavorazione infatti permette di coltivare intensivamente la piantagione e di produrre uva di qualità senza passare per la raccolta a mano. Lavorazione intensa della piantagione grazie alla meccanizzazione valida che permette di lavorare poca uva per pianta di qualità anche se non raccolta a mano.
Di quali tecnologie usufruite?
Noi utilizziamo soltanto cisterne in acciaio. Le antiche botti di legno sono scenografiche, ma per i vini d’annata non sono adatte; senza contare che risultano molto meno indicate a livello igienico, perché non posso essere sterilizzate e pulite, come invece si confarebbe sempre nella produzione di beni di genere alimentare.
Abbiamo sempre un occhio di riguardo nei confronti della naturalità e della genuinità del vino e per questo limitiamo l’uso di additivi chimici quanto più ci è possibile. Non usiamo il diserbante, ci muniamo di vasche a temperature controllate e vendemmiamo in notturna, per evitare di sottoporre l’uva a sbalzi termici elevati, in modo da garantirci un vino di qualità superiore.
Che tipo di potatura praticate? A mano o meccanizzata?
Pratichiamo una potatura a mano. Il Lambrusco di Sorbara è un vitigno di tipo vegetativo e perciò il cordone speronato è poco indicato: meglio servirsi dell’archetto, come si faceva una volta, per assicurarsi una maggiore qualità e per evitare che l’uva vegeti troppo a lungo.
In cosa consiste l’archetto?
L’archetto è un sistema di coltivazione che si ottiene tagliando un tralcio di vite dal cordone speronato, fino a formare una curva di novanta gradi tendente verso il basso. Le gemme isolate grazie a questa tecnica sono quelle che produrranno l’uva per l’anno successivo. Il Lambrusco è un vino problematico anche per via del problema dell’acinellatura.
Voi come cercate di risolverlo?
Il Lambrusco di Sorbara è un vino che nasce dalla comunione di due diversi vitigni: il Lambrusco e il Salamino, e per questo è necessario ricorrere alla tecnica dell’impollinazione. In tempi antichi, come voleva la tradizione, le piante dei diversi vitigni venivano piantate fianco a fianco e vendemmiate tutte in una volta, oggi si coltivano un paio di filoni di Lambrusco accanto ad uno di Salamino e poi grazie alla meccanizzazione si vendemmiano le piantagioni separatamente (anche perché hanno tempi di maturazione differenti), quindi si procede all’assemblaggio in cantina, ognuno secondo le proprie scelte di attrezzature aziendali.
Come avete ereditato la passione dai vostri predecessori?
Credo che la passione sia innata. Sicuramente qualcuno può educarti a portarla avanti, ma devi avercela dentro, perché questo accada. La mia ad esempio nel tempo è stata sollecitata dalle lezioni di mio suocero.
Lui mi ha insegnato che il vino è un racconto, che parte dalla pianta secca e arriva fino alla bottiglia e che cresce con i tuoi sforzi, come un figlio: è un processo di trasformazione continua e molto interessante. A trecentosessanta gradi. Ogni annata ha la sua storia, che è un po’ anche la tua e che passa attraverso tanta esperienza, tanto lavoro e che si arricchisce del confronto con gli altri produttori. Nella campagna ci sono molti alti e bassi e per crescere occorre umiltà e voglia di imparare: non bisogna né esaltarsi per i propri trionfi, né abbattersi eccessivamente a causa dei fallimenti.
Si tratta di credere nelle proprie potenzialità: noi ad esempio siamo stati fra i primi a vinificare il Lambrusco di Sorbara in purezza attraverso il vitigno Cà Bianca e a credere che questo vino potesse vendere, sfruttando solo le sue proprietà organolettiche. Ed infatti da lì a poco si è verificata una riscoperta del rifermentato in bottiglia secco, acidulo, leggermente sedimentato che ci ha portato tra le altre cose ad adottare nuovamente la nostra etichetta storica di quasi quarant’anni fa.
Il Lambrusco può essere considerato un vino da aperitivo?
Io penso che il Lambrusco si sposi un po’ con tutto e l’errore che noi per primi a Modena commettiamo è quello di non esaltare le molteplici potenzialità che il nostro vino possiede: qualsiasi wine bar del centro se chiedi un vino d’aperitivo, finisce col proporti un prosecco, nonostante disponiamo di ben tre vini rossi frizzanti a chilometri zero.
Dovremmo imparare a privilegiare e ad esaltare la tipicità dei nostri prodotti locali, anche perché oramai esistono tantissimi metodi di lavorazione (come ad esempio il metodo Champenoise), adatti a soddisfare le esigenze dei palati più sofisticati. Far conoscere i nostri vini significa far conoscere anche il nostro paese. Il mondo deve sapere che Modena non è solo Rosso Ferrari, ma anche Rosso Lambrusco.
Ed Expo? Sembrerebbe offrire al nostro paese una grande opportunità di rilancio…
Sì, infatti speriamo che l’Expo ci permetta di ampliare il nostro raggio d’azione a livello nazionale e internazionale. Anche perché noi italiani a causa della crisi, stiamo perdendo per strada il nostro tipico entusiasmo e trascurando la nostra produttività, rischiamo di lasciare inespresse molte delle nostre potenzialità, in primis a livello agricolo; secondo me non è ancora tardi per recuperare terreno. I giovani stanno ritornando alla campagna e vedono in questo una svolta per il loro futuro.
L’importante è lavorare sulla qualità dei prodotti per essere competitivi: dopotutto sono sempre due le grandi fasce di consumatori, quella di chi predilige la qualità e quella di chi compra a prezzo. Noi lavoriamo soprattutto per soddisfare le esigenze della prima.
Avete un diario di lavoro?
Sì, prendiamo appunti sulla quantità produttiva e sulla qualità del vino. Ogni terreno ha la sua tipicità che merita di essere annotata e ricordata, per essere tramandate alle generazioni future.
Ad esempio?
Nella nostra Cantina ad esempio il podere Marandello si differenzia molto rispetto al podere Cà Bianca. Il primo ha profumi più persistenti, un tasso di acidità più elevato e viene sottoposto a metodo Charmat, con una lavorazione di dodici/quattordici mesi. Il podere Cà Bianca invece si caratterizza per profumi meno durevoli e perciò è più adatto alla produzione di Lambrusco di Sorbara amabile in purezza.
Se sei in grado di fare le differenze adeguate, migliori la qualità della produzione e rispetti le caratteristiche del podere, senza rischiare di snaturarlo.
Come sono distribuiti i ruoli all’interno della Cantina?
La nostra azienda è totalmente a conduzione familiare, otto persone su Cantina, Acetaia e Agriturismo. Io sono il responsabile della produzione, mio figlio Alessio si occupa della parte commerciale estera e italiana, mentre mia moglie Antonella è addetta all’amministrazione. Zia Marta e Roberto suo marito, assieme a mia cugina Paola invece seguono la gestione dell’agriturismo. Andrea, mio cugino, tiene dietro ai vigneti e alla campagna. Tutto il nostro lavoro verte sul frutto di una collaborazione condivisa.
La parte di enologia la segui tu?
Solitamente facciamo degustazione tutti insieme per concordare gli assemblaggi dei vini e scegliere il periodo di partenza della vendemmia, poi affidiamo la parte di consulenza analitica all’enologo Pietro Zavattaro.
Nel frattempo ci ha raggiunto il figlio di Mauro, Alessio, responsabile dei commerci esteri della Cantina. Ne approfittiamo per rivolgere anche a lui qualche domanda.
Ciao Alessio, quando hai iniziato a lavorare qui con tuo padre?
Praticamente subito dopo aver conseguito il diploma di perito agrario alle scuole superiori. Eccezion fatta per un breve periodo di un anno in cui mi sono allontanato dall’azienda per imparare l’inglese, lavoro in Cantina Garuti da quasi otto anni.
In quali mercati siete presenti a livello internazionale?
In realtà siamo presenti sul mercato internazionale da pochi anni. Commerciamo vino soprattutto con gli Stati Uniti con i paesi dell’Europa nord orientale: Svizzera, Belgio, Olanda, Danimarca e Germania.
L’esportazione rappresenta comunque lo zoccolo duro della nostra produzione: una realtà in cui non è facile entrare, perché è necessario identificare l’importatore giusto, che sia propenso a promuovere i prodotti di qualità e perché la concorrenza è agguerrita soprattutto a livello di prezzo; senza contare tutti i problemi che possono sorgere per il trasporto e le trafile burocratiche. Molti mercati in rapida ascesa come la Cina poi, richiedono ingenti quantità di beni, anche a spese di una qualità di prodotto meno pregevole, che un’azienda di piccole dimensioni come la nostra non sarebbe in grado di fornire.
I nostri potenziali compratori rimangono quindi i paesi che investono maggiormente su uno standard di qualità medio/alta. Interessante da questo punto di vista sembra essere il Giappone. Ci aiutano le fiere come Vinitaly.
Partecipate a fiere e organizzate eventi?
Certamente. La partecipazione a fiere di settore come Vinitaly dedicati aiutano a farci conoscere nel panorama nazionale e internazionale e a restituire la dovuta importanza alla tipicità di un prodotto unico sul territorio. Nel corso degli anni abbiamo anche istituito alcune collaborazioni a livello locale, come quella intrattenuta col comune di Bomporto per le serate di Rosso Rubino, una serie di degustazioni vinicole nelle cantine comunali, accompagnate da buona musica.
Sempre come rappresentanti del comune di Bomporto, abbiamo gareggiato per il concorso enologico internazionale “La Selezione del Sindaco”; una manifestazione che viene svolta ogni anno in una città italiana diversa, premiata in Campidoglio e che prevede la partecipazione congiunta dell’Azienda (che produce il vino) e del Comune (in cui sono localizzate le vigne), guadagnandoci il secondo posto e una medaglia d’argento. Una vittoria di cui andiamo particolarmente fieri, soprattutto se si considera la grande solidarietà dimostrata dal sindaco Borghi nella tutela del nostro territorio e dei prodotti tipici che noi viticoltori produciamo.
Lui è stato il primo infatti ad adoperarsi per modificare il piano regolatore del paese, mappare il territorio, ordinare il carotaggio per selezionare i terreni idonei alla coltivazione del Lambrusco.
Tra gli altri riconoscimenti a noi attribuiti figurano una medaglia di bronzo nella classifica dei rosati d’Italia e quattro medaglie d’argento alla Douja d’Or di Asti. In ogni caso sono dieci anni che arriviamo ai primi posti nelle classificazioni e siamo convinti che questo risultato sia merito del nostro impegno e delle scelte tecnologiche che decidiamo di impiegare in cantina ogni giorno: naturalità, genuinità, fermentazioni lente e limitazione nell’uso dei prodotti chimici.
Quali sono i vostri principali canali di vendita? Servite anche la grande distribuzione?
Non ci occupiamo di grande distribuzione. Il 70% dei nostri consumatori sono privati e quasi l’80% proviene dal Nord Italia. Il fulcro del nostro lavoro è tutto concentrato sul territorio emiliano; tuttavia, come accennavo prima, stiamo espandendo la nostra distribuzione anche verso l’estero, anche perché il consumo medio di vino in Italia sta calando rapidamente.
Nel corso degli anni avete introdotto prodotti nuovi o mantenete inalterato solamente il patrimonio della tradizione?
Col tempo abbiamo introdotto alcuni prodotti innovativi. Per quanto rispettiamo le colture tradizionali infatti, pensiamo che il sapere tramandato dai nostri predecessori possa e debba essere integrato con le nuove tendenze enogastronomiche.
In linea con le richieste del mercato quindi, abbiamo accolto all’interno della nostra gamma di vini un Pignoletto e uno spumante ottenuto sulla base di un Trebbiano di Spagna. Abbiamo scelto di innovare la cultura di un vitigno autoctono del territorio modenese, fratello bianco del Lambrusco di Sorbara e altrettanto problematico, assemblandolo per impollinazione con il Pignoletto.
Accanto alla Cantina, voi gestite anche una piccola acetaia e un Agriturismo…
L’Agriturismo è una realtà che ci rende fieri almeno quanto la Cantina. Lo abbiamo aperto nel ’92, con un menù essenziale e casereccio, finalizzato a mettere in risalto l’alta qualità e la tipicità degli ingredienti impiegati, per cucinarle. Abbiamo sempre preferito servire poche cose, ma perfezionarle al meglio, perché solo così sembrano essere in grado di darti davvero soddisfazione.
Sono passati quasi vent’anni e ancora cuciniamo quelle cinque minestre e quei tre secondi con lo stesso impegno di sempre; sono quelle che la gente vuole mangiare e che vuole mangiare da noi. Di questo siamo molto contenti, perché significa che il nostro intento è riuscito.
L’Agriturismo rimane il perno fondamentale attorno a cui ruota la diretta promozione dei nostri prodotti: sedersi a tavola e degustare per il cliente infatti rimane senza dubbio il mezzo migliore per testare la garanzia del nostro nome e farne un sinonimo di qualità. Che si parli di vino, aceto balsamico o distillati.