Il Lambrusco era anche un vino che, se fatto correttamente, poteva essere trasportato bene al contrario di moltissimi vini italiani che differivano di queste capacità, come dimostrò nel 1836 Carlo Roncaglia, sovrintendente ducale estense alla statistica, che aveva portato con sé in Egitto un barile prodotto secondo dettami enologici consigliati, dimostrando le indiscutibili qualità di conservazione del vino.
Una successiva testimonianza tramandataci da un opuscolo dedicato alla distruzione dei parassiti del frumento, ad opera di Giusto Giusti, pubblicato nel 1870, notava invece che “Di ogni altra vite nostra la preferibile per me è quella che da quel vino tanto ricercato, il quale va col nome di Lambrusco di Sorbara: esso ha un aroma di viole mammole speciale e regge (fatto come io soglio) a viaggi lunghissimi. Di esso feci una spedizione nel 1860 in Australia a Melbourn al signor Italo Raguzzi, oriundo bolognese e da una sua lettera ho rilevato quanto bene si fosse mantenuto nella traversata di mare e dopo di essa”.
Luigi Maini compilò un “Catalogo alfabetico di quasi tutte le uve o viti conosciute o coltivate nelle province di Modena e di Reggio” e in una conferenza tenuta a Carpi il 6 maggio 1866 disse che nella regione erano 48 i vitigni coltivati, tra cui 27 a uve bianche e 28 a uve nere.
Nel Carpigiano dominava il Lambrusco Salamino; a Bodrione e a Migliarino si trovava il Lambrusco olivone e nel Sorbarese le sottovarietà dette pallonrosso (perché le sue foglie incominciavano ad arrossare alla metà do agosto) e la sottovarietà pallonverde e quella ad acini rotondi, ad acini ovali che nel Sorbanese danno i migliori vini da tavola.
Continua…
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